La recente sentenza n. 15957/2024, pubblicata il 7.6.2024, della Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, a definizione di un ricorso curato dal nostro Studio Legale per conto di una dipendente di un Ente Pubblico, ha stabilito che “Un “ambiente lavorativo stressogeno” può essere considerato come fatto ingiusto, suscettibile di condurre al riesame delle altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche” in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022).
Nella ridetta sentenza si precisa la differenza tra il mobbing e lo straining: “il mobbing lavorativo è configurabile quando vi sia un elemento obiettivo, costituito da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli interni al rapporto di lavoro, e un elemento soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima. Lo straining si configura quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie”.
Nella motivazione della sentenza si precisa che “Per consolidato orientamento di questa Corte la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico – legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. n. 32257/2019).
Infatti, sempre secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, il mobbing lavorativo – per configurarsi – necessita di due requisiti: il primo è un elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro; il secondo è quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), “a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo”.
Non solo: questa sentenza della Cassazione specifica poi, con approfondito riferimento all’art. 2087 c.c., che “si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia – a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81”.
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